weekend di pedalate e stitiche mondanita’
inaugura la biennale architettura nella chiesa di san francesco
un gregge di (non sempre) giovani professionisti accompagnati da parenti si aggira nel grande spazio sconsacrato soffermandosi con fanciullesco orgoglio di fronte al proprio progetto pubblicato / l’allestimento è tristemente insignificante, come del resto la gran parte dei contenuti selezionati /
l’architettura sociale ed ancor più quella popolare sono penosamente in secondo piano (un paio di scuole, uno o due progetti di case a schiera, una bella palazzina residenziale a trieste, che forse non è propriamente popolare ma comunque propone un miglioramento della contiguità abitativa e del rapporto con il contesto ambientale) mentre nella gran parte dei progetti industriali il colore strafottente e il connubio pacchianamente esibito di vetro e acciaio (con le giunture belle in vista di strutture del tutto inutili) sembrano l’unica semplificatoria prospettiva di riscatto, come si trattasse di dover allietare o rendere lussuosa la funzione produttiva, quasi che il lato tecnico dell’edilizia sia un dettaglio che necessita di qualche sorta di maquillage per nasconderne una presunta scabrosità connessa con il suo scopo primario /
l’architettura si è trasformata in una disciplina della mediazione (lo è sempre stata o la cosa sta degenerando?), le funzioni sottoposte a un’accurata cotonatura: si tratta di una vocazione cosmetica che deriva probabilmente dall’orrore popolare per la semplicità del vero, perché non vende o perché non si fa notare /
non vende perché non si fa notare /
del resto, abbiamo a che fare con una disciplina che è da sempre di appannaggio borghese (e dunque fondalmentalmente esibitoria) con commoventi eccezioni consentite da fortuite contingenze storico-culturali / tale prerogativa di sfoggio formale si accentua sensibilmente in particolari stagioni storiche e la nostra rappresenta un triste momento di picco della mediocrità delle arti: attualmente l’architettura, almeno qui in provincia (… e smettiamola di credere di essere all’avanguardia: provincia siamo e provincia restiamo, nella peggiore delle accezioni culturali, inutile darsi tante arie!), serve soprattutto ad esibire (spesso illusoriamente) ricchezza e benessere, a costruire apparenza – e forse per questo la gran parte dei progetti residenziali in mostra non si distingue da quelli commerciali, e gli spazi domestici assomigliano sempre più penosamente a negozi d’arredamento o alle foto pubblicitarie dei mobilifici /
(dov’è la vita in questi lavori? dov’è finita l’invenzione autentica che si mette al servizio del miglioramento dello stare al mondo? visto da qui pare un incessante processo di passiva emulazione senza coraggio) /
mi cade l’occhio sulle immagini di un vecchio bar, ormai rimodernato e costretto agli standard del lusso patinato da piccola città ambiziosa (pur con lodevoli risultati dal punto di vista della gradevolezza): i progettisti hanno pubblicato sulle tavole in mostra le foto del prima e del dopo, convinti di soddisfare le aspettative di ammodernamento inteso come superamento indifferente e intransigente del tempo trascorso e di tutto quello che ha rappresentato / anche gli slanci conservativi rientrano in un sottile gioco di strumentalizzazione che trattiene la presenza fisica degli elementi ma non le loro caratteristiche estetiche o la memoria viva / ad osservare le vecchie immagini in bianco e nero di quello spazio risistemato probabilmente nel primo dopoguerra in un commovente international style, mi prende una delicata nostalgia di quella (peraltro non del tutto innocua) ingenuità, e sogno reazionariamente un mondo senza (questi) architetti che producono un flusso indistinto di progetti dove l’abbellimento di superficie sembra essere l’unico presupposto da tenere in considerazione (unitamente al budget, ovvio) /
… o forse si tratta di una mia personale idiosincrasia nei confronti dell’architettura commerciale, perchè ho una vaga nausea di progetti che non sanno invecchiare, chiusi dentro la loro inossidabile patina, dove il fine ultimo è quello di vendere senza rischiare, senza proporre niente di autenticamente nuovo, lasciando che il nostro sia, nell’edilizia pubblica come in quella privata, un mondo di clienti e di consumatori /
la cultura in tale contesto vive rintanata e morta dentro ai libri che fanno bella mostra negli atelier dei professionisti, ma forse pretendo troppo nel mettere in rapporto l’oramai definitivamente anchilosata arte del progetto con il lavoro culturale /
in realtà le mie invettive si rivolgono al grande polpettone rappresentato dall’esposizione presa nel suo complesso, e va detto che l’ammasso di tristi tavole diligenti (che ricordano quelle che si presentavano alla tesi di laurea od agli esami di composizione) non consente alle eccellenze di emergere con chiarezza dal magma mediocre ed anonimo di segni perfettamente inutili / ma bisogna guardare bene, ed allora si scoprono piccoli esperimenti di autentica architettura, edifici che dialogano con la luce e con il vento, o che consentono l’espressione sincera del materiale, interventi che scompaiono nel paesaggio e diventano istantaneamente storia / è per quei pochi lavori (si contano credo su una sola mano) che vale la pena di fare un passaggio e provare a scavare nella crosta insulsa dell’apparenza, per arrivare fino a dove poche autentiche professionalità hanno saputo mettere a frutto l’amore per questa complessa e compromessa disciplina
. |