Blog Archives

la gola è una zucca
la città una pozzanghera
il letto un’astronave

la giornata travestita da domenica ci inganna tutti
e siamo come bambini

sono stata poco bene
mali di stagione che durano per giorni e che non migliorano nonostante il riposo prolungato

in coda, quello che rimane è una tosse secca e stizzosa – la trascino in giro per le stanze e provo a domarla con infusi caldi di zenzero salvia e miele – ma lei è più forte, più testarda, più cattiva – si ripropone all’uscita dai sogni, al risveglio del mattino, o quando intercetto una corrente d’aria

mi sento così – vagamente sconquassata

  • nella prima foto una pagina  di canetti e una vecchia foto di mia madre
  • progetto e utopia di manfredo tafuri
  • incipit di progetto e utopia (1973)
  • l’ultima foto scattata tanti anni fa da mio padre ad una delle sue architetture


(altro…)

I
c’è un problema se una nota rivista di settore dedica un intero inserto al nuovo stadio della juventus elogiando il fatto che siano state rispettate tutte le esigenze funzionali ma senza mai menzionare quale sia il rapporto, più o meno riuscito, tra ciascuna di quelle funzioni e la forma strutturale e architettonica scelta per espletarle, parlando invece con tono quasi estatico di dettagli formali descritti come fossero capi d’abbigliamento, così che la copertura diventa un “guscio carenato” (quanti ce ne sono oramai in giro, di ‘sti gusci carenati?) “vestito in lamelle metalliche sfumando il bianconero di casa finemente contrappuntato dal tricolore” / c’è un problema se si elogia il fatto che arrivando a un’area terrazzata dello stadio si possa godere di una magnifica vista sul nuovo centro commerciale …

e soprattutto c’è un problema se chi scrive tutto questo è un docente di composizione architettonica al politecnico di milano

ebbene, questo post invece lo scrive una laureata in architettura attualmente senza occupazione che riflette su come le nostre università sprechino i pochi soldi a loro disposizione per assumere persone prive di talento analitico e probabilmente, se tanto mi dà tanto, anche didattico

+
… e c’è anche chi ha il coraggio di dire a bassa voce che il maxxi di roma non è poi così male, qualche amministratore ignorante perfino se ne vanta, petto in fuori e capelli unti, nei salotti dove girano i soldi insieme a occasioni ghiotte di nuovi incarichi / invece basterebbe il nome per capire che dietro la superficie di quel pachiderma realizzato con materiali indefinibili si nasconde qualcosa che non è neppure remotamente imparentato con l’architettura – semmai con la moda più commerciale e pacchiana, e con certe forme grottesche di edilizia del divertimento

II
leggo questa notizia e mi viene da piangere
penso a colui che forse è stato il più grande architetto del diciannovesimo secolo e l’animo diventa amargo, ammutolisce, va in polvere – perché la piega tragica assunta dalle cose e la sua palese irrimediabilità costringono a chiamare con il suo vero nome un pessimismo apparente che in realtà è realismo inoppugnabile

ho in mente le grandi architetture disseminate sul nostro pianeta, quelle che non ho avuto modo di vedere se non in foto e quelle che fortunantamente ho visitato di persona – le penso umilate da un mondo che non è più in grado di riconoscerne il valore /
penso a zaha hadid piena di soldi e di (vana)gloria
poi alla banca di adolf loos che adesso ospita un negozio “tutto a un euro”

e mi viene da piangere


invece di sostituire l’arte alla vita, gli architetti urbani dovrebbero tornare a una strategia che nobiliti sia l’arte, sia la vita, e che valga a illuminare e a chiarire la vita, a spiegarcene i significati e l’ordine: nel caso in questione, ad una strategia che valga ad illuminare, chiarire e spiegare l’ordine urbano / jane jacobs



I
quando arrivo, il tendone dove tra pochi minuti si svolgerà l’incontro con vittorio gregotti è moderatamente affollato – mi guardo in giro e mi domando dove siano gli architetti: poi guardo meglio e realizzo con un guizzo di disperazione che ne sono circondata, che annego in una platea di laureati in architettura vestiti come camerieri, play-boy a riposo che soffrono di nostalgia o agenti di commercio pronti per suonare il campanello e venderti un’aspirapolvere / 

addio stile / bonjour tristesse

 


 

II
quanto sopra, ancor prima che vittorio gregotti dia inizio alla dissertazione sulla città pubblica (forzatamente o fortunosamente solitaria, dato che l’interlocutore è assente) / mi aspetto un discorso politico, ed in effetti quella che viene inizialmente posta come una questione estetica conseguente allo svuotamento dei contenuti teoretici e degli obiettivi programmatici inerenti la disciplina architettonica, svela progressivamente la drammatica condizione del rapporto non risolto tra oggetti architettonici (il più delle volte mediocri), abbandonati a se stessi, a galleggiare in un magma spaziale che è appannaggio di speculazioni e rendite private, un territorio post urbano intenzionalmente deregolarizzato in modo da massimizzare tale processo di barbarie edilizia e la proliferazione di scenari ormai tristemente familiari, caratterizzati dal profilo grossolano di qualche centro commerciale o da blocchi edilizi seriali privati di qualsiasi minima forma di intuizione progettuale / (l’immagine qui sopra parla da sola)
 

quello che sconcerta è l’indifferenza generale e la connivenza istituzionale che circondano tali scenari, l’indifferenza di cittadini pur deprivati del diritto al paesaggio e alla qualità urbana, ma anche degli stessi architetti, che di fronte a certe commesse di dubbio valore non girerebbero tanto facilmente la testa dall’altra parte, ipnotizzati da un’ulteriore occasione di clonare matericamente il proprio ego di calcestruzzo /

 


III
così – l’altro giorno gregotti parlava dello spazio tra le case, uno spazio di cui nessuno si occupa a livello politico affinchè possa rimanere il più a lungo possibile mercè della speculazione e dell’edificazione indiscriminata di grandi e piccoli oggetti di design tendenzioso, che praticano una mimesi superficiale con le mode del proprio tempo, mettendo in atto un rispecchiamento senza architettura /
 

lo spazio tra le case e quello tra le cose
quello tra le cose mie e di altri, quello che valica il confine personale, del giardino o del garage, lo spazio che diventa comune e poi solo di altri / c’è bisogno di fornire un linguaggio alle relazioni spaziali e soprattutto di legiferare in maniera intelligente e onesta – mi viene da dire che è l’urbanesimo la risposta, non l’architettura – e l’urbanesimo è principalmente una questione politica /
gli architetti sfruttano questa situazione di deregulation e di assenza di un riferimento teoretico disciplinare a loro uso e consumo / nessuno è in grado di sindacare, e il confronto con la mediocrità è sempre rassicurante per chi è mediocre di suo / inoltre, i professionisti dell’edilizia sono degli edonisti, da troppo tempo continuano ad occuparsi delle singole villette, delle gallerie alla moda, di rendere grazioso il negozio all’angolo, di inventare una bella scaffalatura /
questo sanno fare, questo gli è comodo fare e della politica gli importa solo che procuri qualche commesa in più e che il loro progetto passi in commissione edilizia / non lottano, non si arrabbiano – pensano a sbarcare il lunario ed a trovare qualche nuovo cliente (il ristorantino in periferia, lo chalet per le vacanze, la risistemazione di un vecchio parco) che lusinghi il loro ego sempre affamato /
… e questo sta bene alla politica, cui del resto della qualità dell’architettura e del paesaggio non è mai importato granchè, preferendo di gran lunga il chiasso delle archistar o il progettino frettoloso di qualche geometra compiacente per realizzare qualche affare speculativo che necessita di una firma /

insomma, possiamo dirlo senza temere di esagerare: stanti così le cose gli architetti non alterano l’esistente a livello sostanziale e dunque sono inutili – anzi, il più delle volte sono dannosi, perché utilizzano la materia come se fosse la più immateriale ed effimera delle sostanze, come se fosse un gas tossico che invade i lotti urbani addormentandone i fermenti, o la tintura di un parrucchiere che dopo qualche lavaggio restituisce ai capelli il tono orginale

invece è necessario trovare modelli efficaci – che lavorino su un livello altro rispetto a quello individuale / perchè fare bene le proprie cose (e le proprie case) non basta più, c’è bisogno di inventare un tessuto connettivo e di strutturarlo / c’è bisogno di chiedere alla politica che faccia il suo lavoro, che si occupi del territorio, delle case e dello spazio tra le case, ma anche di cercare risposte teoretiche che riportino la disciplina a una condizione condivisa

 


 

 

IV
la gran parte delle questioni trattate dal “vecchio professore” (*) durante l’incontro si trova condensata nel primo capitolo di “contro la fine dell’architettura” (da cui ho prelevato tutte le citazioni di questo post) / se andate a leggere, a un certo punto inciamperete nelle parole magiche: senso di necessità della pratica artistica
sembra così semplice a leggerle sulla carta! e pare che le soluzioni a tutti i problemi siano condensate in quella piccola frase / se ci interrogassimo con costanza sulla necessità di ogni azione professionale, di ogni atto pseudo-artistico od architettonico, sulla necessità di un acquisto così come di una scelta di vita, e soprattutto, se tale domanda fosse il metro di giudizio in merito all’esistente, forse potremmo sviluppare la coscienza critica necessaria a ristabilire un ordine delle cose, premessa a qualsiasi forma di civiltà e di vitalità professionale e artistica /
a un ordine potremo successivamente opporre qualche forma di disordine, sarà lecito e auspicabile trasgredirlo e metterlo in discussione, rifondarlo – ma là dove non c’è alcuna possibilità di avere dei riferimenti chiari, qualsiasi azione diventa aleatoria, soggettiva, effimera – appannaggio delle forze dominanti, che sappiamo essere quelle del mercato e non certo quelle mirate alla salvaguardia della civiltà e della cultura / 

sono le domande che potremmo porre a noi stessi (prima ancora che all’esterno) a conformare il progresso, è la nostra capacità di mettere in atto ragionamenti critici, migliorando le nostre azioni per poi pretendere il miglioramento di uno stato comune
ma quali strade potrebbe seguire la cultura nell’impostare un discorso critico, quali dovrebbero essere i punti di riferimento di un qualsiasi ricominciamento? giustamente a un certo punto gregotti, parlando della disciplina architettonica, oppone al rispecchiamento effimero nelle mode del momento, lo studio critico della storia e delle esperienze precedenti /
conoscere gli antefatti è forse l’unico modo attualmente a disposizione per intendere e modificare il presente / guardare per esempio alle tante forme di civiltà dell’italia del dopo-guerra, prendere spunto da certi fuochi culturalli che furono sotterrati con la presa di potere di una classe politica che aveva intravisto in tali fuochi una fonte di autonomia intellettuale dei cittadini, una fonte di bellezza condivisa e non la rendita più o meno occulta di pochi fortunati /

abbiamo a suo tempo votato per una democrazia e con il passare del tempo ci siamo illusi o abbiamo deciso che tale democrazia, anziché rappresentare un’opportunità di crescita a tutto tondo, fosse impostata unicamente sul raggiungimento di un benessere materiale, dimenticando come tale benessere vada mantenuto e sostenuto attraverso meccanismi culturali che garantiscano la permanenza delle regole (anche quelle più elementari) della civiltà e del rispetto

 

(*) detto in senso bonario e con il massimo rispetto per quella sua età così ricca di esperienza

immagini:

  1. vittorio gregotti a pordenone legge
  2. allen jones – chair 1969
  3. centro commerciale euroma 2
  4. francesco rosi – le mani sulla città 1963
  5. bill owens – suburbia 1972

 

[alcune cose non si dimenticano, rimangono incastrate da qualche parte e sbiadiscono con molta lentezza rispetto al resto / ogni tanto tornano a galla, ricompaiono senza preavviso e in qualche modo mi fanno sentire meno confusa, rassicurata, come si trattasse di certezze]

.

c’è un articolo su uno dei primi numeri di gomorra, parla di come certe opere d’architettura di dimensioni consistenti (in particolare si riferiva ad alcune grandi strutture realizzate a roma nel dopoguerra), appena costruite sembravano fuori scala e capaci di un impatto deleterio con il contesto, ed invece negli anni hanno rivelato l’inattesa capacità di condizionare positivamente lo sviluppo delle aree urbane ancora acerbe in cui erano state pensate e collocate, rappresentando un sistema spaziale di riferimento, punti di gravitazione dello scenario urbano, presenze amichevoli e rassicuranti

buona architettura è dunque anche quella che sprigiona le sue qualità nel tempo e non necessariamente nell’immediato / buoni gli uomini che sanno pensare a un modo positivo di relazionarsi con una situazione estetica e spaziale che solo all’apparenza sembrerebbe ostile

 




parole: peter eisenman



weekend di pedalate e stitiche mondanita’
inaugura la biennale architettura nella chiesa di san francesco
un gregge di (non sempre) giovani professionisti accompagnati da parenti si aggira nel grande spazio sconsacrato soffermandosi con fanciullesco orgoglio di fronte al proprio progetto pubblicato /  l’allestimento è tristemente insignificante, come del resto la gran parte dei contenuti selezionati /
l’architettura sociale ed ancor più quella popolare sono penosamente in secondo piano (un paio di scuole, uno o due progetti di case a schiera, una bella palazzina residenziale a trieste, che forse non è propriamente popolare ma comunque propone un miglioramento della contiguità abitativa e del rapporto con il contesto ambientale) mentre nella gran parte dei progetti industriali il colore strafottente e il connubio pacchianamente esibito di vetro e acciaio (con le giunture belle in vista di strutture del tutto inutili)  sembrano l’unica semplificatoria prospettiva di riscatto, come si trattasse di dover allietare o rendere lussuosa la funzione produttiva, quasi che il lato tecnico dell’edilizia sia un dettaglio che necessita di qualche sorta di maquillage per nasconderne una presunta scabrosità connessa con il suo scopo primario /
l’architettura si è trasformata in una disciplina della mediazione (lo è sempre stata o la cosa sta degenerando?), le funzioni sottoposte a un’accurata cotonatura: si tratta di una vocazione cosmetica che deriva probabilmente dall’orrore popolare per la semplicità del vero, perché non vende o perché non si fa notare /
non vende perché non si fa notare /
del resto, abbiamo a che fare con una disciplina che è da sempre di appannaggio borghese (e dunque fondalmentalmente esibitoria) con commoventi eccezioni consentite da fortuite contingenze storico-culturali /  tale prerogativa di sfoggio formale si accentua sensibilmente in particolari stagioni storiche e la nostra rappresenta un triste momento di picco della mediocrità delle arti: attualmente l’architettura, almeno qui in provincia (… e smettiamola di credere di essere all’avanguardia: provincia siamo e provincia restiamo, nella peggiore delle accezioni culturali, inutile darsi tante arie!),  serve soprattutto ad esibire (spesso illusoriamente) ricchezza e benessere, a costruire apparenza – e forse per questo la gran parte dei progetti residenziali in mostra non si distingue da quelli commerciali, e gli spazi domestici assomigliano sempre più penosamente a negozi d’arredamento o alle foto pubblicitarie dei mobilifici /
(dov’è la vita in questi lavori? dov’è finita l’invenzione autentica che si mette al servizio del miglioramento dello stare al mondo? visto da qui pare un incessante processo di passiva emulazione senza coraggio) /
mi cade l’occhio sulle immagini di un vecchio bar, ormai rimodernato e costretto agli standard del lusso patinato da piccola città ambiziosa  (pur con lodevoli risultati dal punto di vista della gradevolezza):  i progettisti hanno pubblicato sulle tavole in mostra le foto del prima e del dopo, convinti di soddisfare le aspettative di ammodernamento inteso come superamento indifferente e intransigente del tempo trascorso e di tutto quello che ha rappresentato / anche gli slanci conservativi rientrano in un sottile gioco di strumentalizzazione che trattiene la presenza fisica degli elementi ma non le loro caratteristiche estetiche o la memoria viva / ad osservare le vecchie immagini in bianco e nero di quello spazio risistemato probabilmente nel primo dopoguerra in un commovente international style, mi prende una delicata nostalgia di quella (peraltro non del tutto innocua) ingenuità, e sogno reazionariamente un mondo senza (questi) architetti che producono un flusso indistinto di progetti dove l’abbellimento di superficie sembra essere l’unico presupposto da tenere in considerazione (unitamente al budget, ovvio) /
… o forse si tratta di una mia personale idiosincrasia nei confronti dell’architettura commerciale, perchè ho una vaga nausea di progetti che non sanno invecchiare, chiusi dentro la loro inossidabile patina, dove il fine ultimo è quello di vendere senza rischiare, senza proporre niente di autenticamente nuovo, lasciando che il nostro sia, nell’edilizia pubblica come in quella privata, un mondo di clienti e di consumatori /
la cultura in tale contesto vive rintanata e morta dentro ai libri che fanno bella mostra negli atelier dei professionisti, ma forse pretendo troppo nel mettere in rapporto l’oramai definitivamente anchilosata arte del progetto con il lavoro culturale /
in realtà le mie invettive si rivolgono al grande polpettone rappresentato dall’esposizione presa nel suo complesso, e va detto che l’ammasso di tristi tavole diligenti  (che ricordano quelle che si presentavano alla tesi di laurea od agli esami di composizione) non consente alle eccellenze di emergere con chiarezza dal magma mediocre ed anonimo di segni perfettamente inutili / ma bisogna guardare bene, ed allora si scoprono piccoli esperimenti di autentica architettura, edifici che dialogano con la luce e con il vento, o che consentono l’espressione sincera del materiale, interventi che scompaiono nel paesaggio e diventano istantaneamente storia /  è per quei pochi lavori (si contano credo su una sola mano) che vale la pena di fare un passaggio e provare a scavare nella crosta insulsa dell’apparenza, per arrivare fino a dove poche autentiche professionalità hanno saputo mettere a frutto l’amore per questa complessa e compromessa disciplina

.