monthly archives: settembre 2011
GIANCARLO ILIPRANDIRIFIUTIAMO LA CIVILTÀ SE QUESTA È CIVILTÀ. QUESTA NELLA QUALE CI SIAMO TROVATI INSERITI O ADDIRITTURA INTEGRATI, COME VI ACCUSANO DI ESSERE; QUESTA CIVILTÀ DELLE ACQUE TORBIDE E DELL’ATMOSFERA FUMOGENA, DEL SESSO STAMPATO E DELLA SCUOLA IGNORANTE, DEL VERDE SMORTO E DELL’OGGETTO REGALO, DELLA FAME ENDEMICA E DEL RUMORE GLORIFICATO, DELLA VIOLENZA COME SOLUZIONE E DELLA TENEREZZA COME POVERTÀ. UN GRANDE RIFIUTO CHE SIA UNA GRANDE UTOPIA, OFFERTA COME UNICA SOLUZIONE MENTALE DALLA CARENZA DELLE SOLUZIONI OPERATIVE, UNO SFORZO DI IMMAGINAZIONE DOPO IL QUALE RIADAGIARCI, ESAUSTI, NELLE PIÙ CONCRETE COMMITTENZE DI LAVORO CHE CI RIPORTERANNO AL PRESUNTO BENESSERE. |
- cover
- ilio negri
«Tutti sappiamo- dice Danilo Dolci alle mamme di Partinico, nella prima pagina del suo nuovo libro – come è necessaria una scuola nuova. Le mamme, dapprima timide e disorientate, prendono via via coraggio a parlare, raramente interrotte da una domanda, dall’invito a precisare un concetto, da una sottolineatura. 6 luglio 1973 sempre sul blog di giuseppe casarrubea: danilo dolci visto da carlo levi |
invece di sostituire l’arte alla vita, gli architetti urbani dovrebbero tornare a una strategia che nobiliti sia l’arte, sia la vita, e che valga a illuminare e a chiarire la vita, a spiegarcene i significati e l’ordine: nel caso in questione, ad una strategia che valga ad illuminare, chiarire e spiegare l’ordine urbano / jane jacobs
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I quando arrivo, il tendone dove tra pochi minuti si svolgerà l’incontro con vittorio gregotti è moderatamente affollato – mi guardo in giro e mi domando dove siano gli architetti: poi guardo meglio e realizzo con un guizzo di disperazione che ne sono circondata, che annego in una platea di laureati in architettura vestiti come camerieri, play-boy a riposo che soffrono di nostalgia o agenti di commercio pronti per suonare il campanello e venderti un’aspirapolvere / addio stile / bonjour tristesse
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II quanto sopra, ancor prima che vittorio gregotti dia inizio alla dissertazione sulla città pubblica (forzatamente o fortunosamente solitaria, dato che l’interlocutore è assente) / mi aspetto un discorso politico, ed in effetti quella che viene inizialmente posta come una questione estetica conseguente allo svuotamento dei contenuti teoretici e degli obiettivi programmatici inerenti la disciplina architettonica, svela progressivamente la drammatica condizione del rapporto non risolto tra oggetti architettonici (il più delle volte mediocri), abbandonati a se stessi, a galleggiare in un magma spaziale che è appannaggio di speculazioni e rendite private, un territorio post urbano intenzionalmente deregolarizzato in modo da massimizzare tale processo di barbarie edilizia e la proliferazione di scenari ormai tristemente familiari, caratterizzati dal profilo grossolano di qualche centro commerciale o da blocchi edilizi seriali privati di qualsiasi minima forma di intuizione progettuale / (l’immagine qui sopra parla da sola) quello che sconcerta è l’indifferenza generale e la connivenza istituzionale che circondano tali scenari, l’indifferenza di cittadini pur deprivati del diritto al paesaggio e alla qualità urbana, ma anche degli stessi architetti, che di fronte a certe commesse di dubbio valore non girerebbero tanto facilmente la testa dall’altra parte, ipnotizzati da un’ulteriore occasione di clonare matericamente il proprio ego di calcestruzzo /
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III così – l’altro giorno gregotti parlava dello spazio tra le case, uno spazio di cui nessuno si occupa a livello politico affinchè possa rimanere il più a lungo possibile mercè della speculazione e dell’edificazione indiscriminata di grandi e piccoli oggetti di design tendenzioso, che praticano una mimesi superficiale con le mode del proprio tempo, mettendo in atto un rispecchiamento senza architettura / lo spazio tra le case e quello tra le cose insomma, possiamo dirlo senza temere di esagerare: stanti così le cose gli architetti non alterano l’esistente a livello sostanziale e dunque sono inutili – anzi, il più delle volte sono dannosi, perché utilizzano la materia come se fosse la più immateriale ed effimera delle sostanze, come se fosse un gas tossico che invade i lotti urbani addormentandone i fermenti, o la tintura di un parrucchiere che dopo qualche lavaggio restituisce ai capelli il tono orginale invece è necessario trovare modelli efficaci – che lavorino su un livello altro rispetto a quello individuale / perchè fare bene le proprie cose (e le proprie case) non basta più, c’è bisogno di inventare un tessuto connettivo e di strutturarlo / c’è bisogno di chiedere alla politica che faccia il suo lavoro, che si occupi del territorio, delle case e dello spazio tra le case, ma anche di cercare risposte teoretiche che riportino la disciplina a una condizione condivisa
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IV la gran parte delle questioni trattate dal “vecchio professore” (*) durante l’incontro si trova condensata nel primo capitolo di “contro la fine dell’architettura” (da cui ho prelevato tutte le citazioni di questo post) / se andate a leggere, a un certo punto inciamperete nelle parole magiche: senso di necessità della pratica artistica sembra così semplice a leggerle sulla carta! e pare che le soluzioni a tutti i problemi siano condensate in quella piccola frase / se ci interrogassimo con costanza sulla necessità di ogni azione professionale, di ogni atto pseudo-artistico od architettonico, sulla necessità di un acquisto così come di una scelta di vita, e soprattutto, se tale domanda fosse il metro di giudizio in merito all’esistente, forse potremmo sviluppare la coscienza critica necessaria a ristabilire un ordine delle cose, premessa a qualsiasi forma di civiltà e di vitalità professionale e artistica / a un ordine potremo successivamente opporre qualche forma di disordine, sarà lecito e auspicabile trasgredirlo e metterlo in discussione, rifondarlo – ma là dove non c’è alcuna possibilità di avere dei riferimenti chiari, qualsiasi azione diventa aleatoria, soggettiva, effimera – appannaggio delle forze dominanti, che sappiamo essere quelle del mercato e non certo quelle mirate alla salvaguardia della civiltà e della cultura / sono le domande che potremmo porre a noi stessi (prima ancora che all’esterno) a conformare il progresso, è la nostra capacità di mettere in atto ragionamenti critici, migliorando le nostre azioni per poi pretendere il miglioramento di uno stato comune abbiamo a suo tempo votato per una democrazia e con il passare del tempo ci siamo illusi o abbiamo deciso che tale democrazia, anziché rappresentare un’opportunità di crescita a tutto tondo, fosse impostata unicamente sul raggiungimento di un benessere materiale, dimenticando come tale benessere vada mantenuto e sostenuto attraverso meccanismi culturali che garantiscano la permanenza delle regole (anche quelle più elementari) della civiltà e del rispetto
(*) detto in senso bonario e con il massimo rispetto per quella sua età così ricca di esperienza |
immagini:
- vittorio gregotti a pordenone legge
- allen jones – chair 1969
- centro commerciale euroma 2
- francesco rosi – le mani sulla città 1963
- bill owens – suburbia 1972
just a simple list this week
art ensemble of chicago / a jackson in your house – 1969
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[…] ti sorprende che a tale disastro reagisci con una forma di immobilità che ricorda la paralisi o le modalità di certi insetti: sgrani gli occhi e guardi – silenziosa e trasparente / non sai dove mettere le mani così le tieni sospese a mezz’aria, come pale di un ventilatore spento |
a pordenone faceva un caldo africano e sembreva di trovarsi ancora nel cuore di un’estate promettente e infinita
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evoluzione di un indumento di porcellana sulla cima di una montagna
porcelain garment evolution on the top of a mountain