un post del 2004 dedicato al rapporto tra l’arte e le persone
la parola politica quasi non si vede ma c’è, in forma di retrogusto
come si è spostata (se lo ha fatto) la mia visione delle cose, da allora?
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IL MONDO DEI FINTI SCIAMANI
24 07 2004
ultimo numero di alias appoggiato sullo scanner. articolo sui coolhunter, cacciatori di tendenze. pare che le acque vadano man mano a confondersi, il mercato si infila capillarmente fin nelle cantine di chi lo combatte…
tutto questo emerge chiaramente dalla scrittura ma inevitabilmente ambiguo è l’atteggiamento etico e politico di chi opera in alcuni settori. come se non esistessero possibili posizioni morali, perché chi va a caccia di tendenze è una specie di eroe, un surfer dei bassifondi e dell’alternativo capace di dialogare con l’altra sponda [quella equa e riottosa nei confronti di un capitalismo sempre più complesso e sofisticato]
insomma, la tendenza, il trend, ciò che ci conduce [non solo esteticamente] oltre il presente, seppur di poco, è da difendere? anche se si tratta di un’evoluzione con risvolti culturali pressochè nulli, ma piuttosto legata all’idea di mantenere sempre accesa la fiamma dello shopping e del consumo incondizionato?
mi sento un po’ retrograda ogni volta che affronto questo discorso, per via della mia reticenza nei confronti di atteggiamenti eccessivamente modaioli e avanguardisti. esterofili e tecnocratici. sono lenta. ho bisogno di anni e secoli per poter assimilare tutto quello che ancora non conosco. mentre tutto gira vorticosamente intorno al cambiamento costante e rapido. i discorsi si ingarbugliano e non ne tengo le fila. la politica e l’economia. l’estetica e il consumo. la fame di novità. l’ignoranza e la cultura. la moda. l’arte e la pubblicità. un costretto groviglio di valori e disvalori che non trovano ordine, che raggiungono la suprema sublimazione quando l’entropia raggiunge il suo massimo.
come potrei raccapezzarmi in questo gomitolo che se non sto attenta mi risucchia al suo interno e mi anestetizza con i suoi gadget? mi sento combattuta tra un atteggiamento scostante e la dipendenza da un universo in vendita, colorato e accattivante, carico di risvolti pop, con il quale l’arte [o ciò che ne rimane] e la cultura vanno inevitabilmente a braccetto…
mi pare che tutto questo riguardi una sfera del vivere troppo parziale, dimentica di squilibri profondi e di insopportabili iniquità. la cultura si muove lungo un percorso che raramente combatte attivamente le disuguaglianze sociali e che lavora per migliorare la condizione planetaria. certo, gli intellettuali dichiarano spesso il loro appoggio alle opposizioni ed alla controcultura [ma esiste ancora?];
ma quanto del nostro lavoro artistico ed intellettuale è destinato a risolvere i problemi di chi tempo e risorse per l’arte e la cultura non ne ha davvero? ho sempre visto l’artista come uno che aiuta a porsi delle domande e non come un santone che possiede delle inutili quanto improbabili risposte. eppure il più delle volte, le esposizioni sono un rigurgito di sterile individualità, di banali estetizzazioni e di esasperazione di tendenza. oltretutto, questo miscuglio di cultura soggettiva, onanismo e sottocultura mercatizia risulta del tutto inservibile, perché non pensato come uno strumento di dialogo. inservibile perché incomprensibile per le masse, basato su codici astrusi e fini a se stessi.
è un problema che si affaccia alla mia finestra ogni giorno e che il più delle volte ricaccio indietro per incapacità di trovare soluzioni attendibili. ancora nelle orecchie le lapidarie parole di haacke che non lasciano aperto nessuno spiraglio a un’utilità sociale e politica dell’arte.
si potrebbe dire che cultura e salvezza marciano su due piani differenti. completamente disgiunti. ma se è vero che la cultura e l’arte dovrebbero almeno contribuire alla formazione e fortificazione della coscienza dell’uomo, com’è possibile che ciò accada quando la maggior parte degli esseri umani non sono in grado di intendere il prodotto di intellettuali ed artisti? questo non significa abbassare il livello della cultura ma produrre cultura in funzione della gente, come faceva pasolini, ad esempio. [e chiedo scusa se mi ripeto a volte, ma credo sia una delle figure più significative, una chiave di volta nello studio della relazione che intercorre tra voce narrante e pubblico].
le possibilità ci sono, per far uscire la cultura dai salotti borghesi e dai microclan elitari. possibilità che non passano attraverso i bagliori di tendenza e che comportano probabilmente un rallentamento della corsa, la rinuncia a un certo margine di avanguardia [non è esattamente così che vorrei definirla, ma non trovo un termine idoneo], per garantire una maggiore leggibilità del messaggio. |