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14 01 05 THE DELIVERY MAN - KING IS BACK! l'ultimo disco di costello supera ogni aspettativa,
e costruisce una magica triangolazione tra i gangli migliori della sua
carriera. stupisce positivamente persino quando fa venire in mente particolari
meno accattivanti del suo percorso [dettagli passati che una buona parte
degli ammiratori vorrebbe dimenticare, come il richiamo a for
the stars in either side of the same town].
ebbene, il grande mago del pop riesce a dare un senso anche alle meno
riuscite tra le molteplici e multiformi tappe della sua crescita, che
in virtù di questa costante ri-metabolizzazione stento a definire
eclettica quanto piuttosto accentratrice: alla fine tutto ritorna al
re, e la sua voce stridente eppur così abile riconduce ogni nota
nella griglia geniale dello Stile. sempre in ambito sonoro, segnalo su ABASTOR 33 un interessante articolone sulla storia della musica elettronica firmato erik ursich: personaggi, date, strumenti e illustrazioni in una sintesi chiara e dettagliata che fornirà un prezioso compendio a chi vuole familiarizzare con un genere ancora tutto da scoprire, ma utile anche per chi questo filone musicale lo in-segue già da tempo per conoscere il mondo di ABASTOR [oddzine per un pubblico raffinato e sensibile] consiglio una visita al sito di riferimento. KOOLHAAS > OPERETTE FORMALI - TRADI/UZIONI
EPOCALI [---] a un certo punto si parla di koolhaas,
e disquisendo di utilità sociale metto in discussione il valore
di uno strumento quale S,M,L,XL, troppo confusionario e di fatto tendenzioso
per poter risultare comprensibile al lettore medio. tento di scindere
l'operazione progettuale dalla comunicazione sebbene mi renda conto in
partenza che non vi è una grande differenza tra alcuni dei lavori
realizzati e la struttura del grosso volume antologico che classifica
l'attività dei primi vent'anni di professione dell'architetto olandese
sotto forma di glossario epocale. devo riconoscergli l'ineguagliata capacità
di interpretare fattivamente l'epopea della comunicazione avanzata e del
delirio iconografico, attraverso grandi progetti quali il negozio prada
a new york o la biblioteca pubblica di seattle, ma anche mettendo a punto
un nuovo insieme di regole grafiche per la fruizione del materiale testuale
ed iconografico. sembra proprio che abbia voluto concepire una [grazie
al cielo non l'unica!] nuova maniera di intendere la comunicazione, maggiormente
appropriata rispetto ai nuovi media ed ai cambiamenti qualitativi e quantitativi
che sono subentrati nell'ambito dell'estetica editoriale con l'avvento
delle nuove tecnologie per la produzione e manipolazione delle immagini.
29 01 2005 [---] e a scrivere un post in word, per dire, sarà un problema mio, non ci sono mai riuscito. [antonio sofi su webgol] viviamo un tempo di gente così viziata dai lussi tecnologici, che non è più importante la necessità di dire qualche cosa, quanto lo strumento [passivo per definizione] scelto per dirla? ... questioni puramente tecniche e capricci informatici condizionano la comunicazione, il che la dice lunga sulla qualità ma soprattutto sulla necessità di riversare in rete il marasma di parole di cui quotidianamente vengono rinzeppati i blog. [---] un post covato troppo diventa come la prima pagina di un libro: ci tieni, insomma, e non va bene [macchianera] ...che blog e libro siano due universi separati e per certi versi contrapposti posso anche essere d'accordo [solo in linea di massima comunque], ma perché mettere così tanti paletti alla scrittura, come se ancora una volta fosse più importante la forma della sostanza, il supporto del messaggio? come se un post bello, epico, consistente e quasi cartaceo, fosse negletto in un mondo fatto di scrittura effimera e il più delle volte [diciamocelo] scadente, e di contenuti ridotti al minimo, che sono informazione e non cultura [grande viatico del nuovo millennio: evitare il più possibile la cultura perché fa male, ci porta a scrivere "come sui libri" e i nostri post potrebbero diventare epici...] in tutto questo il grande attore pare
essere il TEMPO: non c'è più pazienza nelle nostre giornate,
né capacità di coltivare un pensiero e la sua espressione
come se fosse una piccola pianta. bisogna esternare, mettere in mostra,
consumare qualsiasi pensiero anche se non maturo. l'importante è
la pubblicazione. qualcuno potrebbe tirare in ballo il buon
giornalismo, da sempre basato sulla freschezza editoriale e sull'immediatezza
della scrittura: sinceramente non credo che sia tutto e sempre riconducibile
a simili principi. i giornali dovrebbero esser frutto di un mix sapiente
di scrittura immediata e di note ponderate, e solo chi possiede una grande
cultura o un particolare talento di scrittura unito a un altrettanto particolare
spirito, può di fatto partorire con sufficiente continuità
note che vivano di pura immediatezza. rimane di fatto un'altra questione: se word riesce a fermare il nostro slancio espressivo non dovremmo interrogarci sulla necessità di scrivere in quel dato momento o quel dato pensiero? non si tratta infatti di strumenti musicali che non siamo in grado di suonare e che quindi non possono aiutarci a compilare una data melodia, né di un vezzo estetico legato al fatto che il prodotto finale possa esser diverso a seconda dello strumento usato; parliamo di supporti alla scrittura che siamo perfettamente in grado di sottomettere alla nostra volontà intellettuale e che producono un identico prodotto finale: il famigerato post [dietro al quale si spera sempre che si nasconda un'idea forte almeno quanto la scrittura stessa]. ...e d'altro canto può un semplice capriccio formale bloccare la nostra espressività? visti da qui paiono interrogativi senza risposta
MAGICAL BOX
vorrei scrivere di un corpo che ha perduto i suoi odori, neutralizzati da profumi e antiodoranti. stigmatizzati insieme ad ogni altra imperfezione che restituisca la naturalezza dell'essere umani e in quanto tali irrisolti... capelli tinti, epidermide schiarita desquamata purificata, levigata da creme che al tocco si trasformano in ciprie sottili, mimetiche. marshall mc luhan parlava di protesi-
già parecchie decine di anni fa, ma oggi mi pare del tutto inopportuno
il nostro disquisire tipicamente occidentale, in merito a un corpo che
non possediamo più, e che vive sublimato, al di là di se
stesso, privato in parte della sua fisicità. il corpo si è
dunque trasferito nella bidimensionalità delle fotografie, o è
migrato dentro la scatola mistificatrice della tv. è un corpo impeccabile:
fotoritoccato, patinato, confuso e levigato da riflettori e filtri. le protesi di cui ha parlato enrico
bianda su webgol
qualche giorno fa costituiscono un potenziamento della parte artificiale
a discapito di quella naturale ... ma proprio per sfuggire a questo smarrimento
-perché non proviamo invece a indirizzare
la nostra attenzione su quello che succede al di fuori del nostro sofisticato
fazzoletto di terra occidentale ed egotistica? tempo fa lessi sul blog di milton un'interessante nota sull'egocasting: ebbene, devo riconoscere che in qualche misura questa perdita della corporeità occidentale ha molto a che fare con l'assenza di un confronto reale, conseguente anche ad un incalzante narcisismo-onanismo [sotto]culturale. confronto che le nuove modalità di interazione e comunicazione rendono sempre più debole e presunto. siamo convinti a priori delle opinioni dell'altro così come tendiamo sempre più spesso ad attribuirgli una fisicità basata su pure supposizioni. si potrebbe dire che l'interlocutore virtuale è l'ennesima protesi, questa volta di natura mentale, proiezione di una serie di desideri e fragilità atti a proteggere e tutelare il processo di torpore critico che nel frattempo va consolidandosi ed intaccando nuovi aspetti della nostra quotidianità siamo davvero compiaciuti e così compresi in questo nostro paradiso- culturale, gradevole e multiaccessoriato, da non renderci conto che da anni ormai usiamo gli strumenti che la tecnologia ci offre senza quasi mai proiettarci al di fuori dall'universo ristretto che ci avvolge e ci protegge, svilendone o trascurandone le potenzialità di natura socio-culturale. così che alla fine, quegli stessi strumenti che sembrano potenziare il nostro corpo ed estenderci oltre noi stessi non fanno, nella maggioranza dei casi, che impoverire gradualmente la nostra autonomia funzionale ed intellettuale, creando una dipendenza da comodità del tutto supeflue e allontanandoci da un modo di vivere meno sofisticato ma anche maggiormente autonomo e realista. [---]
un'estensione sembra pertanto l'amplificazione di un organo, di un senso
o di una funzione che ispira il SNC al gesto autoprotettivo di ottundere
l'area estesa, almeno per quanto concerne l'ispezione e la consapevolezza
diretta [---] forse il dono più significativo che la tipografia fece all'uomo è quello del distacco e del non coinvolgimento, il potere di agire senza reagire [---] MARSHALL MC LUHAN CIÒ CHE HAI NEGLI OCCHI NON BASTA PIÙ... [---] non mi basta,
però. dal post di antonio sofi su webgol del 05.04.2005 ...CIÒ CHE HAI NEGLI OCCHI NON BASTA MAI.
mi sento di controbattere all'affermazione
di sofi, contenuta nel post dedicato alle foto scattate durante le esequie
papali, trovandomi invece maggiormente d'accordo con le parole di covacich,
che fa riferimento all'emozione quale parte di un complesso rito mediatico,
che non necessariamente prevede l'esistenza di valori profondi e la conseguente
necessità di sedimentare il vissuto attraverso la memoria.. è un atto di protagonismo
apparente quanto presuntuoso: la massa infatti non è nemmeno consapevole
delle potezialità del medium [non importa capirlo, basta possederlo],
ma è al contrario succube del rito in se stesso e della necessità
di esplicitare superficialmente l'appartenenza > appartenenza mediatica
che si esprime anche attraverso la tecnologia. [---] la distrazione ed il raccoglimento
vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione:
colui che si raccoglie davanti all'opera d'arte vi si sprofonda; penetra
nell'opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista
della sua opera compiuta. inversamente, la massa distratta fa sprofondare
nel proprio grembo l'opera d'arte. [---]
udine 11 04 2005 ---------------------------------------------------------- Si è aperta sabato 2 luglio a Treppo Carnico la prima mostra dedicata all'architettura di Gino Valle dalla data della sua scomparsa, avvenuta nel 2003. La mostra raccoglie disegni originali e fotografie dei progetti realizzati in Carnia tra gli anni cinquanta e gli ottanta, e si sviluppa su due piani, all'interno della pinacoteca Enrico De Cillia [dove le incongruenze degli spazi espositivi, rimodernati in maniera alquanto discutibile in tempi recenti, sono state sapientemente mascherate attraverso un allestimento spartano quanto efficace]. L'apertura della
mostra è stata accompagnata da un convegno dedicato ad Architettura
Contemporanea e Montagna: professionisti di fama internazionale hanno
potuto offrire interpretazioni varie in merito all'approccio progettuale
in contesto montano, offrendo interessanti spunti di riflessione, sia
su aspetti di natura tipologica che su questioni a carattere maggiormente
concettuale [come nell'intervento di Alessandro Rocca, incentrato sulle
possibili declinazioni di concetti quali montagna, altitudine e dislivello,
anche in ambito artistico, a sottolineare il frequente assottigliarsi
dei confini tra le varie discipline]. L'accento va posto
sul sostegno offerto da amministrazione comunale, regione ed enti provinciali
a un ristretto gruppo di professionisti, che con grinta e determinazione
hanno saputo realizzare un progetto in grado di dimostrare la possibilità
di portare avanti iniziative di ottimo livello [e senza esborsi eccessivi!]
anche in territori per definizione marginali, che si confrontano troppo
spesso con eventi di scarso spessore e condizionati da un'anacronistica
patina folklorica. Ma se per i professionisti presenti risulta scontato che la buona progettazione rappresenti un veicolo di socialità e cultura, dà da pensare il fatto che la platea fosse composta quasi esclusivamente da specialisti del settore, a dimostrazione di quanto ci sia ancora da lavorare per coinvolgere la popolazione nel dibattito architettonico. Se simili esperienze venissero promosse con maggior frequenza, magari con il diretto coinvolgimento di scolaresche e popolazione locale, le cose potrebbero - forse - cambiare almeno un poco... udine 05 07 2005 HIC ET NUNC intendo dedicare alcune righe a
hic et nunc 2005, rassegna di arte contemporanea
che ha chiuso i battenti un paio di giorni fa e che son riuscita fortunosamente
a visitare grazie al pretesto del passaggio in città di due cari
amici portoghesi. *all'interno di una interessante raccolta di video proiettati nell'ex falegnameria dell'antico ospedale dei battuti il giardino di palazzo rota ospita alcuni
lavori che tentano inutilmente un dialogo con la natura, imitandone maldestramente
i colori e i toni attraverso un uso pedissequo dei materiali, in un anacronistico
tentativo di mimesi dalle sfumature freak. anche in questo caso ci sorprende
positivamente lo spazio affascinante del parco, che conserva angoli di
decadenza e trasporta i visitatori in una dimensione estranea alla contemporaneità,
che solo a tratti ritorna al presente per interventi spontanei e forse
barbarici, come i graffiti dei ragazzi sui tronchi degli alberi o le scritte
dipinte a pennarello sul tavolo di pietra che staziona in un angolo ombroso.
ci pare, a un tratto, di percepire un
eco delle nostre voci, e pensiamo a uno scherzo di theo teardo e della
sua installazione che propone sovrapposizioni sonore inaspettate grazie
a numerosi microfoni nascosti in giro per la città. così, al di là di
qualsiasi pretesa, il giudizio finale sulla rassegna d'arte contemporanea
risulta essere altamente positivo, in primis per aver spalancato i cancelli
di luoghi altrimenti fuori portata ed in secondo luogo per aver saputo
incastonare all'interno di un panorama artistico di desolante mediocrità,
due o tre lavori di innegabile spessore e di nobile leggerezza. 27 agosto 2005 reduce da una visita alla mostra veneziana
di lucien freud, ed a quella - minima - di kiki smith alla fondazione
querini stampalia. il silenzioso giardino zen
di carlo scarpa è stato in parte occupato dagli ombrelloni e dai
tavolini del bar, proprio nella zona sottostante le vecchie sale della
biblioteca, da cui durante la bella stagione era possibile ascoltare attraverso
le finestre aperte l'impercettibile gocciolare dell'acqua e il raro smuversi
del ghiaino. ora tutto questo è stato sostituito dal brusio dei
turisti e dal rumore di piatti e tazzine, e dalle finestre ai piani superiori
la vista di quegli ombrelloni aperti a castrare una parte del giardino
dev'essere davvero mortificante. al secondo piano della fondazione una
serie di stanze ospitano fino all'11 settembre una piccola mostra curata
da chiara bertola dell'artista americana kiki smith. homespun
tales, storie di occupazione domestica [è il titolo
dell'installazione] si ispira agli interni tradizionali veneziani e ne
offre una personale reinterpretazione attraverso una presa di possesso
dello spazio, che però troppo spesso mi pare sfoci in un lavoro
eccessivamente formale, dove si stenta a leggere l'elegante capacità
grafica e comunicativa della smith, ottusa da una patina naive che ne
indebolisce notevolmente la carica espressiva.
dove non segnalato altrimenti le immagini sono tratte dal sito della fondazione querini stampalia di venezia] 300805 arrivare a venezia e ritrovarmi nella mia città senza di fatto avere un posto dove fare pipì o togliermi le scarpe e buttarmi sul letto a riposare mi fa sentire a disagio, come se ormai fossi parte di quell'impasto umano che intasa le calli e vaga senza sosta. è una sensazione nuova che non sono capace di gestire. mi provoca stanchezza e male ai piedi [ho stupidamente indossato un paio di sandalini anziché delle scarpe da passeggio, come se fossi uscita per sbrigare delle commissioni e non per camminare tutto il giorno da un museo all'altro! à anche questa è una svista dovuta all'eccessiva familiarità con il luogo: mi comporto come se ancora gli appartenessi, ed invece ne sono stata espulsa ormai da molto tempo]. al correr mi aspetto una coda di almeno mezz'ora ed invece
tutta la gente è per strada, mentre i musei sono quasi vuoti. la
mostra
presenta novanta lavori tra quadri e incisioni di lucien freud, pittore
tedesco nipote del famoso sigmund, nato a berlino nel 1922 e successivamente
naturalizzato inglese. il percorso evidenzia alcuni riferimenti importanti, quali schiele e bacon, con cui freud intrattenne una lunga frequentazione testimoniata da schizzi e ritratti [in mostra solo un piccolo ritratto del 1956]. vi è in lui una tensione verso la carne [andar oltre la superficie] solamente accennata, che si concentra prevalentemente sui volti, nei quali spesso la pennellata si scioglie [come in "Interior with Plant, Reflection Listening" del 1967-68], senza sfociare però nel disfacimento baconiano; ugualmente non trovo qui la stessa carica concettuale del maestro inglese scomparso, che ai temi autobiografici seppe sovrapporre una più profonda evoluzione del discorso pittorico e forse anche una più significativa carica esistenziale. rimangono per me alcune questioni in sospeso, in primis
l'enigma della luce, che freud tratta spesso con suggestiva ambiguità
[o forse con una sensibilità trascendente]. uscita dalla mostra, e dopo il passaggio alla fondazione
querini di cui ho già scritto nei giorni scorsi, ho optato [dimenticandomi
completamente di lucy e jorge orta alla bevilacqua la masa] per una visita
alla chiesa di san stae, dove sul soffitto a volte è proiettato
un video di pipilotti
rist. a la procheme, con un resoconto settembrino sulla biennale di venezia
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