su rai5 va in onda settimanalmente petruška, una trasmissione dedicata alla musica
nella puntata di oggi intitolata “il terzo suono” il conduttore dall’ongaro racconta come nel corso dei secoli l’uomo abbia imparato a ricavare suoni inediti da strumenti che rimangono sostanzialmente immutati: il violino, il flauto, il pianoforte, arrivando fino alla valorizzazione estrema delle pause e del silenzio, ciascuno strumento a disposizione rivela una timbrica molto estesa e permette combinazioni quasi illimitate di suoni e di trattamenti per ottenere una scrittura aderente alle esigenze estetico-musicali di epoche diverse
questa capacità di svecchiarsi (o piuttosto di non invecchiare) posseduta dagli strumenti (ma ancor prima il ruolo cruciale degli artisti che sono in grado di rivelarne la perenne giovinezza) mi porta a considerare con una certa amarezza il punto attuale: nel documentario infatti emerge con forza il ruolo importante che ebbe il contributo italiano alla crescita della musica internazionale e della ricerca. nomi come berio, gazzelloni, nono, ensemble nuova consonanza di cui fece parte morricone tra gli altri, salvatore sciarrino (ultimo tra i sopravvissuti, ma forse aggiungerei anche boccadoro e il suo ensemble) oggi dovrebbero contendersi il primato con evanescenze quali einaudi, il retorico vacchi o persino allevi? la morte di claudio abbado pone ancor più tragicamente l’accento su un panorama costellato di molte ottime voci ma sguarnito di reali emergenze e di talenti che sollevino in alto la musica e la cultura italiane
la trasmissione si chiude con un video ormai celebre degli anni 60 in cui mina e gazzelloni in prima serata sulla rai interpretano una breve fuga di bach, e mi chiedo quanto di trasmesso oggi (non necessariamente in prima serata) possa eguagliare una tale leggera bellezza e quale personalità si possa confrontare con una simile triade di talenti che andavano disinvoltamente in onda su un canale generalista e popolare come raiuno
pare che lasciamo sempre più spazio al rumore indiscriminato (e per rumore intendo l’inconsistenza commerciale e scialba di produzioni prive di spessore, tutte uguali e analogamente fastidiose, sparate ad alto volume perché in fondo il volume è l’unico elemento a fare la differenza, in grado di far vibrare qualcosa nel nostro organismo ottundendo ancor di più la ragione se ne è rimasta)
e pare che ci accontentiamo, sempre più spesso, abituandoci all’ordinarietà che ci circonda, proprio come si abitua l’organismo ai veleni assumendoli prima in piccole dosi e poi via via in quantità sempre più consistenti
per sopravvivere, anzi riuscendo perfino ad esserne apparentemente entusiasti in molti casi
ma si può parlare di autentico entusiasmo quando manca la cultura e soprattutto quando manca la percezione della qualità?
queste considerazioni purtroppo valgono anche per altre discipline e non solo per la musica
ieri per esempio guardando il lavoro dei fratelli castiglioni riproposto in una interessante trasmissione sulla storia del design che va in onda su laeffe (perché i nostri ragazzi non guardano queste trasmissioni? perché non gliele facciamo scoprire? io le suggerisco ai genitori ma i miei consigli rimangono sistematicamente inascoltati) e considerando le nuove produzioni di quelli che sarebbero gli eredi degli imprenditori illuminati di qualche decennio addietro ho provato un sincero fastidio, in parte per la prosaicità dei nuovi segni, miseramente banali e non elegantemente semplici come ci vorrebbero far credere che siano, in parte per la piattezza di materiali che si assomigliano tutti quanti tra loro, dove le plastiche fanno da padrone ed i colori accesi sembrano in grado di risolvere ogni tenzone estetica, come se ciò che è vivacemente colorato (non ne posso più di verde pisello e rosa fucsia!) fosse gradevole per definizione, senza ulteriori indagini sulla forma, sul tatto, sulla complessità del significato intrinseco a un oggetto e su come tale oggetto svolge la sua funzione (in questo probabilmente ikea ha una buona dose di colpa perché molto del colorato vi si trova a buon prezzo e svecchia superficialmente le nostre case senza troppe pretese, ma non è l’unica).
ci chiediamo ancora “perché”, quando guardiamo le cose?
ci chiediamo mai all’atto dell’acquisto quale sia la ragione della loro forma e se ci piace davvero tenerle in mano, addosso o dentro le nostre abitazioni, oppure le nostre scelte sono regolate da una compulsione all’assomigliamento, all’appartenenza a uno stesso modo di essere universale e spersonalizzante?
soprattutto, mi verrebbe da aggiungere, ci chiediamo mai se ne abbiamo davvero bisogno e se quegli oggetti e gadget rientrano tra le nostre autentiche priorità?
continuo a pensare che l’abito decoroso di un uomo del dopoguerra era più elegante dell’abito decoroso di un uomo attuale, e che le canzoni commerciali italiane degli anni 60 non abbiano trovato tante degne rivali nei decenni successivi (fatta eccezione per pochi capolavori, ma forse battisti non se lo ricorda quasi più nessuno, sommerso e travolto da un marasma di canzonette inascoltabili)
e sono fermamente convinta che una delle prerogative mancanti dei prodotti di cui tappezziamo le nostre vite sia quella di entrare in sintonia con il proprio tempo e con il tempo più in generale attraverso la propria struttura, perché il processo industriale recente e l’avvento dei materiali plastici termofusi hanno in qualche modo bloccato la leggibilità del corpo dell’oggetto, rendendolo uniforme ed opaco, facendone un unicum inscindibile di struttura e superficie, dove un utente poco preparato non trova elementi di coivolgimento razionale e probabilmente nemmeno emotivo o tattile
quello che agli esordi pareva una meravigliosa opportunità sta diventando nauseante, inevitabile quando non si conserva il valore della misura e quando si dimentica che sono gli oggetti ad esistere per l’uomo e non viceversa!
si tratta quasi sempre di oggetti che non si possono aggiustare una volta rotti, che si danneggiano malamente e non consentono rattoppi o adattamenti; sono soprattutto prodotti di cui rimane pressochè sconosciuta la natura del contenuto, quali sostanze ne abbiano conformato la consistenza e quale processo chimico o meccanico abbia garantito la loro forma: insomma, sono oggetti che ci tengono al di fuori e che il mercato continua a promuovere per una mera questione di convenienza sua e non per utilità nostra, e immagino tantomeno del pianeta
e se con il passare del tempo siamo diventati più razzisti e incapaci di gestire le differenze di etnia e cultura, non ci accorgiamo di aver riempito le nostre case di estranei e stranieri inanimati che tolleriamo senza batter ciglio, perché la gran parte delle suppellettili e dei mobili incarnano un’estetica che non è parte del nostro mondo e che corrisponde solo debolmente al nostro modo di vivere, oggetti con cui la relazione diventa più distratta, meno radicata, e soprattutto inconsapevole
andando a considerare le varie discipline pare che la ricerca si sia mossa quasi solo nella direzione imposta dal mercato, e del resto sappiamo che se tanta plastica abbiamo usato, almeno altrettanta ne dovremo smaltire e riciclare per evitare il collasso dell’ecosistema
che sia il fai-da-tè l’unica soluzione rimasta per abbattere l’arroganza estetica e recuperare un po’ di poesia, andando finalmente a riconsiderare e riutilizzare quanto esisteva prima, i vecchi mobili lasciati in cantina o in garage, o provando a scovare qualche reperto presso i robivecchi di quartiere e nelle parrocchie?
vecchio o nuovo che sia, credo che il primo passo riguardi la ricerca della qualità perduta, una qualità che sovrasti la forma e che venga finalmente considerata un diritto; questa è primariamente una sfida culturale (e dunque politica) perché per poterla pretendere, la qualità dobbiamo prima ri-conoscerla